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In solo un paio di decenni la comunicazione delle aziende si è arricchita di così tanti canali e media da far coniare agli esperti la nuova definizione di comunicazione crossmediale. Come per tutte le occasioni, l’eccesso di canali a disposizione può essere un’arma a doppio taglio: mentre cerchiamo di coglierne le opportunità dobbiamo anche gestire le sue dinamiche in modo strategicamente corretto per il nostro brand, per non trovarci fra le mani uno strumento ingombrante che ci ostacoli più di quanto ci aiuti.
Il concetto di comunicazione crossmediale, o più semplicemente di crossmedialità, non è nato ieri, ma sta finalmente guadagnando sempre più attenzione fra gli addetti ai lavori del marketing, uscendo dall’ambito esclusivo delle riflessioni accademiche.
Con crossmedialità (o anche crossmedia, cross-media) ci si riferisce alla possibilità di mettere in connessione diversi mezzi di comunicazione, beneficiando dell’evoluzione e della crescente diffusione delle varie piattaforme digitali.
Rispetto al concetto di multicanalità, e a quello ormai storico di multimedialità, la crossmedialità pone l’accento non tanto sulla varietà dei canali o media a disposizione, ma sulla sinergia resa possibile dall’uso incrociato di questa molteplicità di mezzi. In un sistema di comunicazione crossmediale le informazioni non vengono solo emesse su più canali, ma integrate e completate dall’interazione fra i media, che espande e arricchisce il messaggio: in altre parole, la crossmedialità non è solo un modo di trasmettere il messaggio, ma di crearlo, poiché una parte delle informazioni nasce proprio dal rapporto fra i messaggi condivisi sui diversi strumenti.
Fin qui la definizione teorica: ma cos’è in pratica la crossmedialità?
Sono crossmediali tutte quelle azioni in cui un messaggio richiama altri messaggi distribuiti su altri canali, come ad esempio il QR Code da scansionare con lo smartphone in fondo alla locandina che ci collega alla pagina Facebook dell’evento; la cartolina concorso allegato al prodotto che invita a candidare la propria foto sul canale Instagram dell’azienda; o ancora la pubblicità sul giornale che riporta l’hashtag da cercare sui social per seguire gli ulteriori sviluppi della campagna.
Abbiamo scelto esempi molto semplici, naturalmente. Lavorando in modo più raffinato, è possibile ad esempio sviluppare sui diversi social versioni diverse, più lunghe o più brevi, di uno spot, postare vari formati di un’immagine, o ancora anticipare sui media tradizionali un teaser di campagna, per poi sviluppare il contenuto completo sui social.
Per capire in che modo la comunicazione crossmediale influisce sul brand dobbiamo ricordare cos’è e come funziona una marca. Ne abbiamo parlato, per esempio, in questo articolo, riflettendo sul mondo di suggestioni di brand che ne costituiscono il posizionamento. Se accettiamo il fatto che il brand è un universo narrativo che si nutre di ogni singola manifestazione per costruire la percezione della marca, e che questa percezione, nella mente del pubblico, ha le caratteristiche di una grande storia, diventa chiaro perché la crossmedialità può essere uno strumento cruciale nel brand positioning.
È noto che qualsiasi storia – e quindi anche il posizionamento di marca – si fissa tanto più nella nostra memoria quanto più viene ripetuta. L’effetto è ancora più forte se la storia che ci viene ripetuta non è sempre uguale. Diverse versioni, voci diverse, dettagli che si aggiungono in diversi momenti sono gli ingredienti che trasformano un racconto in realtà, almeno nella nostra mente. Lo stesso meccanismo, per esempio, sta alla base di altri fenomeni sociali, come il pettegolezzo o la genesi delle leggende metropolitane.
Con un uso strategico della sinergia fra i canali di comunicazione disponibili, oggi i brand possono richiamare e far interagire fra loro gli ingredienti del loro marketing distribuiti su tutte le piattaforme, toccando trasversalmente diversi target di pubblico con progetti di comunicazione infinitamente più potenti di quelli possibili qualche decina d’anni fa.
Chiaramente non è mai tutto rose e fiori. Non nel marketing, almeno.
Oggi quasi tutte le aziende sono in qualche modo raggiungibili su più media. Infatti, non serve essere un grande marchio per essere presenti con un sito, una pagina Facebook o Instagram (più o meno professionali), oppure tramite la pubblicità radio, TV e a mezzo stampa.
Questo comporta che ogni azienda, comprese le PMI, si trovi di fatto a comunicare in un sistema multicanale; senz’altro un grande vantaggio, ma nel solo caso in cui si sia in grado di farlo correttamente.
Con l’affermazione delle piattaforme digitali la multicanalità non può più basarsi sulla semplice diffusione dello stesso identico messaggio su tutti i touchpoint che l’azienda ha con il suo pubblico. La convergenza mediatica di Henry Jenkins ha da anni lasciato posto proprio a strategie di comunicazione cross-mediale, che modellano il messaggio in base alle caratteristiche del medium in cui verrà trasmesso, integrando la presenza dell’azienda nei vari canali in una voce unica e originale. Le aziende, inserite all’interno di questo ecosistema mediale in continua evoluzione, si cimentano spesso in più o meno improvvisati tentativi di comunicazione, senza sapere però realmente come strutturare una strategia cross-mediale o, nella maggior parte dei casi, senza neppur comprendere cosa si intenda con questo termine, con esiti potenzialmente più dannosi di quel che si crede.
In questi casi si può parlare dunque di una sorta di crossmedialità senza governance, priva di una vera strategia e visione d’insieme. Pensiamo per esempio al caso di una piccola impresa che avvia la propria presenza sui social aprendo una pagina Facebook aziendale (o, più realisticamente, che decide di affidare a dei professionisti la gestione social che prima svolgeva internamente). A meno che a occuparsi dei social non sia la stessa agenzia di comunicazione che già segue l’azienda – in quel caso un minimo di controllo è naturale – chi ha la responsabilità di coordinare la comunicazione? Di verificare per esempio che il linguaggio, lo stile e i contenuti espressi dall’azienda riflettano la stessa identità, così da inviare al pubblico segnali riconoscibili e non fuorvianti?
Il pericolo è più serio di quanto sembri. A primo impatto, infatti, il rischio sembra essere quello di non valorizzare gli investimenti di comunicazione. Campagne stampa che non trovano
corrispondenza e “sponda” sui social; posizionamenti di brand implementati a caro prezzo nei materiali istituzionali che poi non trovano riscontro negli altri mezzi, e così via: si tratta indubbiamente di occasioni e budget sprecati, o sfruttati malamente.
Una comunicazione crossmediale senza governance – potremmo chiamarla crossmedialità inconsapevole – è però ben più pericolosa: la coesistenza di messaggi disallineati fra diverse piattaforme può non solo vanificare i messaggi, ma danneggiare l’identità preesistente del brand. Non dimentichiamo che il posizionamento di marca è un processo mai finito, in cui le percezioni che il pubblico ha associato alla marca sono sempre rinegoziabili, anzi in negoziazione costante. In questo scenario, ogni messaggio che immettiamo sul mercato è come il mattone di un edificio: disposto in modo mirato ci aiuta a costruirlo, lanciato a caso contro il muro può anche farlo crollare.
Allo stesso modo, con segno opposto, una comunicazione crossmediale gestita correttamente può non solo sfruttare al meglio le azioni di comunicazione, ma moltiplicarne gli effetti, sia in termini di performance immediate che di posizionamento di brand sul medio e lungo termine.
Anche se non sono ancora molte le agenzie di comunicazione ad offrirla, la governance sulla comunicazione crossmediale è un servizio sempre più richiesto dalle aziende. Un lavoro che richiede un team di professionisti di branding e che può garantire sorveglianza costante su ogni azione di comunicazione, per garantirne l’adeguatezza e la coerenza, fra tutti i touchpoint, rispetto alla strategia di racconto di brand stabilita.
Coerenza che non significa appiattire lo stile della comunicazione, anzi: quando il quadro media è chiaro, una buona governance può persino declinare le campagne in messaggi creativi diversi, calibrando ad esempio l’advertising in base ai target dei diversi media. Può scegliere, per esempio, di raccontare il concept di una campagna in format video o stories più informali sui social più giovani, riprendendo i concetti con toni e immagini più rassicuranti sulla stampa, massimizzando la presa di ogni messaggio in base ai profili di pubblico.
Gli esempi potrebbero essere infiniti, ma crediamo che il concetto sia evidente: progettare ogni azione da un’unica, competente, sala di regia sta diventando non solo la via più sicura per gestire la presenza di un brand sul mercato, ma anche la più potente in termini di incisività della comunicazione.