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Fra mito e sogno italiano, orgoglio nazionale e qualità reale, l’export del Bel Paese non smette di trainare la nostra economia. Ma oggi, forse più che nel resto del mondo, è proprio dall’Italia che inizia l’evoluzione decisiva – diciamo pure il cambio di paradigma – del Made in Italy, che influenzerà sempre più il modo di produrlo e di comunicarlo. In patria prima che fuori, perché se tutti amano il prodotto italiano, sono proprio i consumatori italiani i primi e più preparati giudici da convincere, prima di conquistare il resto del mondo.
In tutto il mondo, “Made in Italy” è sinonimo di qualità, sicurezza e affidabilità.
Il “Made in” nazionale si collocava già nel 2019 in quinta posizione mondiale, dopo USA, Francia, Germania e Giappone, trainato dal lusso, in cui l’Italia è terza al mondo con i cosiddetti “BB”, Belli e Ben fatti, e dal food, moda, casa e persona. Ma anche da automotive, oil & gas e farmaceutico.
Una presenza estera che non teme le fasi di incertezza politica ed economica e nemmeno il Covid, che nel 2020 ha rallentato le esportazioni, ma non ne ha fermato la crescita, che nel 2021 ha segnato il record di sempre: già a giugno, le esportazioni hanno superato il livello pre-Covid di 480 miliardi di euro dell’intero 2019, che a sua volta era già il più alto di sempre. Un trend che ci ha portato oltre i 500 miliardi per fine anno.
Una crescita che ha visto protagonista l’agroalimentare, uscito dalla crisi Covid più forte di prima, con un +11% per un totale di 52 miliardi. Un altro record, secondo Coldiretti spinto da due fattori: le vittorie sportive e musicali, e la svolta salutistica nei consumi globali causata dalla pandemia.
Questa rapida scorsa ai dati conferma un fatto: il Made in Italy funziona perché associato all’idea di qualità. Niente che noi italiani non ci aspettassimo: quello su cui voglio riflettere invece è quanto e perché questo successo stia influenzando la percezione del Made in Italy che abbiamo in Italia.
In questo mondo con sempre meno confini, anni di produzione, esportazione e marketing sono rientrati per osmosi dentro i confini nazionali, riportando anche in casa il prestigio costruito all’esterno. Un cambio di percezione che origina da diversi fattori e agisce a diversi livelli, alcuni discutibili e altri virtuosi.
Di sicuro i temi della sicurezza e della salute, estremizzati dalla pandemia, hanno rafforzato la nostra preferenza per prodotti italiani, a partire dal food. Di fronte all’invasione dei prodotti esteri economici, la rassicurazione degli alimenti di origine nostrana si trasmette rapidamente anche ai beni di altro genere, abituandoci a rifiutare il prodotto non italiano.
Alle spalle di questa tendenza c’è una sorta di “sopravvalutazione della propria civiltà”: la tendenza di un popolo a considerare più civilizzato il proprio paese. Forse perché solo del nostro contesto abbiamo una percezione reale, stentiamo a ricordare che anche gli altri paesi hanno regolamenti e normative. Insomma, la percezione non sempre razionale che solo in Italia i prodotti siano controllati e gli abusi siano puniti.
A questo pregiudizio si aggiunge poi l’etica del “compra italiano”, spinta dal senso di appartenenza sociale e politica. Una sorta di consumo critico in positivo, che spinge ad orientare gli acquisti verso il prodotto Made in Italy per supportare le imprese, i lavoratori e le famiglie italiane. Un “aiutiamoci a casa nostra” che ha anche ragioni etiche, per la sensazione che nella filiera italiana siano migliori i controlli, le tutele sul lavoro e il rispetto dei diritti. E a queste motivazioni possiamo aggiungere ovviamente l’orgoglio campanilistico nazionale. Dinamiche che gli psicologi definirebbero vere e proprie “libido sociali”.
Al di là dei pregiudizi e degli opportunismi, però, il Made in Italy merita realmente l’attenzione che sta maturando, fuori casa e in patria. Che l’origine italiana sia un valore aggiunto reale lo dimostra, per esempio, la questione dell’Italian Sounding, cioè quel mercato che aggira le sanzioni sulla contraffazione dei prodotti tutelati simulando un’italianità per assonanza, con nomi inventati come Parmesan, Mortadela, Reggianito e Pasta Schuta.
Un fenomeno che strappa un sorriso (ma anche una “stecca” che ci costa 54 miliardi di euro l’anno) ma che è interessante perché ovviamente rivolto solo al mercato straniero: la conferma che il valore del Made in Italy non è sentito solo a livello nazionale.
Le riflessioni che ho fatto sin qui non hanno la pretesa di esaurire tutti gli aspetti dell’evoluzione del Made in Italy, tuttavia mi servono per arrivare al cuore della riflessione.
Se è vero che il Made in Italy non è solo un mito italiano, è vero anche che, in quanto fenomeno culturale e di consumo, esso è in continua evoluzione. Così come il suo successo è andato crescendo – e continua a crescere – all’estero, ma anche in patria la sua percezione non è sempre stata quella di oggi: l’amore per il Made in Italy non è nato con gli italiani.
E questo ha delle conseguenze importanti sia per chi lo produce che per chi lo comunica.
Il percepito interno del Made in Italy e della sua filiera è il frutto di un lavoro su due fronti: quello del marketing, che ha costruito conoscenza, reputazione e desiderabilità e quello dell’imprenditoria, che ha continuato a ricercare e produrre qualità.
È accaduto secondo me quel che spesso accade: la reputazione che costruisci diventa chi sei. Così, mentre raccontavamo al mondo quant’è buono il prodotto italiano, facevamo nostra quell’idea di qualità, come produttori e consumatori.
Un circolo virtuoso forse involontario, di cui oggi raccogliamo i frutti: siamo prossimi – o forse il processo è in corso da tempo, ma ora ne stiamo prendendo coscienza – a un cambio di paradigma nella comunicazione del Made in Italy.
Qualcosa di simile a quel che accadrà nel marketing della sostenibilità: più essa diventa un requisito minimo per stare sul mercato, minore è il suo potere distintivo. Cosicché quando essere sostenibile sarà considerato normale, non sarà più un plus su cui basare una strategia di comunicazione. E alla fine torneremo a scegliere e comprare sulla base di altre caratteristiche.
Allo stesso modo sono convinta che stia cambiando il Made in Italy, prima in patria ma a ruota anche all’estero: mentre si allarga la preferenza per i prodotti italiani, e quindi la loro presenza sul mercato, il semplice fatto di essere Made in Italy perde potere di vendita. L’equazione italianità=qualità si inflazionerà finché i consumatori, passato l’iniziale delirio da innamoramento, torneranno a guardare il prodotto con occhio critico. Non smetteranno di amarlo, credo, ma se prima bastava la dicitura “Made in Italy” (o anche una blanda somiglianza: Pasta Schuta…), inizieranno a valutare caso per caso la qualità dei prodotti.
Una nuova fase, in cui l’italianità si avvicinerà ad essere un semplice requisito d’ingresso e vinceremo o perderemo la competizione in base agli altri valori che avremo saputo mettere nei prodotti e comunicare. Passeremo, cioè, dalla “qualità Made in Italy” al “Made in Italy di qualità”.
Fortunatamente, questa evoluzione è già in corso e credo che ci troverà per lo più pronti:
la ricerca e l’innovazione spingono da sempre molti produttori italiani e molte aziende, fra quelle con cui lavoriamo ogni giorno, sono consapevoli che l’italianità continua a vendere a patto di continuare a creare qualità.
In fondo è l’onore e l’onere di essere italiani: non possiamo permetterci di fare del Made in Italy scadente, non solo perché ne va della credibilità del nostro export tutto intero, ma perché stiamo già tutti competendo in italianità e qualità. Basta pensare a quanto stanno crescendo i food brand impegnati nel recupero della tradizione e della regionalità: una continua esplorazione di nuove declinazioni di italianità, sempre più profonde e quindi presumibilmente più autentiche.
È quello che vediamo ogni giorno, ad esempio, lavorando con marchi storici come Levoni. Un’azienda che non può prescindere dall’origine italiana dei propri prodotti, ma che per mantenere il suo primato deve saper offrire – e comunicare – al pubblico altri valori: una qualità oggettiva, verticale, delle sue singole specialità. Come anche il valore del suo vasto assortimento, che con una ineguagliata ricchezza di tipicità regionali si può proporre come un vero e proprio patrimonio del gusto dei territori italiani.
Un’operazione analoga, votata però all’innovazione anziché alla conservazione, è il percorso che seguiamo con Vagheggi, raffinato brand fitocosmetico. Un settore non-food ma chiaramente appartenente all’area di eccellenza italiana. Anche qui l’italianità è sicuramente (e va comunicata come) un forte valore differenziante, attraverso le filiere italiane dei prodotti, dalla ricerca fino al packaging. Ma allo stesso tempo un ambito in cui, con la dovuta lungimiranza, è strategico non affidare l’intera promessa di marca alla dichiarazione del Made in Italy, raccontando invece, già oggi, il bagaglio degli altri valori dell’azienda.
Un’italianità che si arricchisce quindi continuamente di aspetti innovativi lungo tutta la catena del prodotto, dallo sviluppo di nuove formulazioni ai processi produttivi, fino al confezionamento.
Lo stesso approccio, e chiudo con quest’ultimo esempio altrettanto lampante, con cui accompagniamo da tempo il brand Lapitec, che ha sviluppato un materiale lapideo di assoluta avanguardia – la prima pietra sinterizzata sul mercato – destinato alle superfici di finitura di interior e outdoor di fascia molto alta.
Dico esempio lampante perché, dicevamo all’inizio, il lusso è proprio il comparto che da sempre fa da testa di ponte per il Made in Italy nel mondo. Ciononostante, la scelta più strategica per l’azienda è stata non limitare il proprio marketing al concetto di italian luxury, con il suo portato di design, stile e lifestyle.
Abbiamo invece integrato fin da subito la promessa di brand con altri elementi adatti a distinguerlo nell’immediato sullo scenario nazionale – innovazione, funzionalità, sostenibilità – ma anche a concorrere più efficacemente, in prospettiva, sul mercato estero sempre più competente, le cui aspettative, anche verso il Made in Italy, non possono che continuare a crescere.