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- Agenzia di comunicazione e strategia di marca -
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Come tutte le attività che coinvolgono i sensi e colpiscono l’immaginazione, la progettazione dello store rischia sempre di diventare fine a sé stessa, in una gara mai vinta a chi ci mette più talento, sorpresa, provocazione o esibizione di lusso. E se invece riportassimo lo store design sul sentiero verso casa, cioè quello che arricchisce e costruisce la percezione del brand?
Lo store design, la progettazione dei punti vendita e più in generale degli spazi commerciali sono alcuni degli aspetti fondamentali per il successo del progetto di business di un’azienda.
Un’importanza che però, nell’opinione comune, è ancora troppo legata alla funzione strettamente commerciale del punto vendita, e tiene poco conto, anzi, quando non perde di vista del tutto, la vera, vitale funzione del retail: il suo potenziale in termini di branding.
Se i grandi marchi affidano la progettazione dei propri negozi a interior designer gettonati, quando non a vere e proprie archi-star, non è solo per sviluppare ambienti che attirino i clienti all’interno o incoraggino la vendita del prodotto.
Certo, le performance di vendita sono e restano il legittimo obiettivo finale dell’impresa, anche di quelle più grandi: dalla tecnologia alla cosmesi al fashion, i più interessanti store project design che possiamo trovare in tutto il mondo sono anche efficaci macchine commerciali, in cui ogni percezione del cliente è progettata per scandire la sua store experience e convogliare il consumatore verso l’acquisto.
Ma perderemmo un’occasione unica – e troppi ancora lo fanno – limitando l’ideazione di un negozio al semplice obiettivo di vendere di più. Il retail point può e deve diventare un’estensione fisica dell’identità di marca, e quindi un capitolo decisivo nel suo processo di posizionamento sul mercato.
Ecco perché affidarsi a un’agenzia di branding, anziché al cosiddetto designer puro, o all’architetto che non si occupa di brand, può essere l’approccio più efficace per un’azienda: al di là del talento, che non è in discussione, la progettazione del retail richiede una visione completa della strategia di brand e competenze specifiche non solo sulle dinamiche della store experience, ma anche su quelle più ampie di brand experience.
La store experience, o shopping experience, è il modo in cui la persona vive la propria esperienza di visita nel punto vendita: è l’insieme di emozioni e sensazioni che lo store evoca, dalla curiosità alla rassicurazione, dalla meraviglia fino al desiderio a qualsiasi altra emozione.
Appena entriamo in un negozio, il nostro sguardo percorre, anche inconsciamente, l’intero punto vendita, o meglio la porzione che ne vediamo, per una rapida ricognizione di quel che propone. È una prima scansione che soddisfa sia il nostro istinto primordiale di accertarci che non ci siano minacce, sia quello della gratificazione, orientando fin da subito la nostra attenzione, e quindi i primi passi della visita, verso ciò che ci stimola di più.
Dopodiché ci addentriamo nel negozio, liberamente o guidati più o meno subliminalmente, e iniziamo a toccare i prodotti in cerca di percezioni più dettagliate. In questa fase i sensi cominciano e essere coinvolti sempre più integralmente, vista, udito, tatto, olfatto, (gusto?). Ci spostiamo all’interno dello store guidati, se tutto funziona, dalla comprensibilità dell’ambiente e dei suoi segnali, espliciti e impliciti. Nel frattempo, subiamo le nostre specifiche influenze personali, di cultura e carattere, che personalizzano l’esperienza rispetto a quella degli altri utenti: evitiamo grafiche e colori che non ci piacciono, ci avviciniamo o meno a zone di luce calda o fredda, bianca o colorata, preferiamo zone più o meno raggiunte dalla musica di fondo, e così via.
La teoria più tradizionale dello store design vuole che, mentre svolgiamo questa personale esplorazione, la progettazione del negozio ci spinga a seguire percorsi pianificati e a toccare vari punti di un ipotetico viaggio a tappe, in modo che prima di uscire siamo stati esposti al maggior numero persuasioni d’acquisto.
Quel che il vecchio design di negozi trascura, invece, è l’effetto più sottile che l’esperienza in store produce mentre la viviamo. Un’esperienza che può raggiungere gli scopi dell’azienda anche se il visitatore esce dal negozio senza aver acquistato nulla. Inevitabilmente, e ancor più se è concentrato a valutare – e spesso a resistere – a una grande mole di prodotti che lo store gli propone di acquistare, il consumatore in visita assimila per tutta la durata della sua visita una miriade di informazioni apparentemente non insidiose, e quindi più tranquillamente ricevibili, perché non le percepisce immediatamente collegate a un messaggio di vendita: quelle di brand.
Abbiamo detto che anche chi lascia il punto vendita a mani vuote, anzi spesso proprio lui più degli altri, porta con sé l’eco delle sensazioni evocate, dei desideri a cui ha dovuto resistere per non acquistare, delle evocazioni che il negozio gli ha suggerito. E queste evocazioni andranno a sommarsi a tutte quelle già presenti nella sua memoria in associazione al brand di cui ha visitato lo store.
Queste esperienze, potenti perché reali, personali, multisensoriali, possono costruire nella mente delle persone quella estensione tridimensionale, la concretizzazione fisica del brand di cui parlavamo all’inizio. A patto però che siano coerenti con il bagaglio di associazioni mentali che il pubblico ha già maturato sul brand.
Può accadere, infatti, che il punto vendita, pur esteticamente piacevole, moderno, elegante, non richiami nella mente dei visitatori lo stesso linguaggio visivo, verbale e sensoriale che il brand ha già nella loro esperienza pregressa. In alcuni casi – i più fortunati – questo riduce semplicemente la riconoscibilità dello store e la percezione della sua appartenenza al brand, vanificando l’eventuale spinta in più all’acquisto che il brand avrebbe potuto offrire. Nella maggior parte dei casi, il problema non è neanche notato. Lo store può funzionare comunque: perché oggettivamente piacevole, per l’abilità del personale o la desiderabilità dei prodotti. Semplicemente, avrebbe potuto vendere di più, e il brand avrebbe avuto un’ulteriore occasione di rafforzare la propria identità nella mente del mercato.
Uno store design guidato da criteri puramente estetici ma incoerente con l’identità di brand, però, può persino fare danni. In termini di mancato guadagno da parte di un eventuale store che non riesce a convogliare fino alla cassa il potenziale di vendita della marca, ma anche di vero e proprio danno al brand.
Non parliamo di casi estremi e per fortuna rari, come quelli di store così mal riusciti da danneggiare anche la reputazione del brand, ma di quelli, più subdoli e diffusi, di retail design affascinanti e apparentemente riusciti che però generano straniamento nella mente del pubblico, confondendo i tratti distintivi della marca.
Questa eventualità – il retail design che non aiuta o addirittura ostacola il posizionamento di marca – è il motivo principale per cui, ancor prima di iniziare a progettare gli spazi di un negozio e a ragionare di shopping experience, dobbiamo riportare il retail design sul giusto binario, insieme alle altre attività di branding. Il primo passo dev’essere confrontarci, meglio se fra esperti di comunicazione, oltre che con i clienti, sul nostro brand e sulle sue strategie di posizionamento: chi siamo? Su quali emozioni e valori stiamo costruendo il nostro posto nell’immaginario collettivo? Quali linguaggi veicolano questi input emotivi e come possiamo declinarli in tre dimensioni in uno spazio fisico?
Solo dopo aver condiviso questi binari di metodo e obiettivo possiamo sviluppare un retail design che mentre stupisce, emoziona, persuade e, infine, vende, contribuisce anche al raggiungimento del nostro obiettivo più importante a medio e lungo termine: l’affermazione della nostra marca nella mente del pubblico.