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Per emozionare non esiste strumento più efficace di una storia: lo storytelling guida le scelte d’acquisto e definisce il successo di un brand. Ma quando il racconto diventa eccessivo, il rischio è perdere autenticità. Scopriamo come bilanciare emozione e strategia nella comunicazione.
Alla fine dello scorso anno, di fronte allo spot di un supermercato andato in onda sui piccoli schermi, l’Italia si è divisa a metà. Forse nemmeno i pubblicitari dell’Esselunga avevano previsto che “La pesca”, questo il titolo dello spot che vede protagonista una bimba ed il suo tentativo di riconciliare i genitori separati, avrebbe generato un dibattito di queste dimensioni.
Costruire una narrazione attorno al tema del divorzio, in un Paese ancora fortemente legato ad un certo conservatorismo cattolico, è già di per sé una scelta audace, un marciare in direzione opposta e vagamente provocatoria rispetto al classico immaginario soffice e felice del Mulino Bianco, nel tentativo di raccontare la realtà in modo più autentico, senza emarginare le emozioni negative. Il diffuso borbottare che ha seguito la messa in onda dello spot di Esselunga, per quanto sembri controintuitivo, rappresenta un indicatore positivo. Testimonia che l’obiettivo primario della comunicazione pubblicitaria, per come viene concepita oggi, è stato raggiunto: coinvolgere emotivamente lo spettatore e far parlare del brand. E per farlo non esiste strumento più efficace di una storia.
Pensiamoci: la pubblicità di un supermercato in cui non c’è un solo riferimento alla qualità dei prodotti, ai prezzi competitivi o all’ultima imperdibile raccolta punti. Nessun dato, numero o elenco di caratteristiche, ma una trama che intreccia persone comuni, emozioni e scenari quotidiani in cui tutti possiamo, chi più chi meno, ritrovarci.
Quello di raccontare è un bisogno umano, radicato nella nostra natura fin dai tempi più antichi. Un bisogno personale di espressione di sé, ma anche un bisogno collettivo: le storie creano, diffondono e mantengono vive la cultura e le tradizioni dei popoli. Dai libri ai post sui social, dai film ai reel su instagram, passando per riviste, blog, quotidiani e serie tv: la potenza che la narrazione ha acquisito nel corso del tempo è evidente anche nel moltiplicarsi dei canali tramite cui le storie vengono trasmesse.
Un potere, quello dello storytelling, ormai noto a tutti e talvolta abusato, il cui ruolo è diventato centrale anche in ambiti, come la finanza, che un tempo mai sarebbero stati associati all’idea di narrazione. Di questo potere, alcuni degli esempi più evidenti provengono dalla politica, che sempre di più, da sinistra a destra, si serve di leve emotive per parlare alla pancia dei propri elettori. Una tendenza analoga si riscontra nel marketing; d’altra parte una campagna elettorale e una pubblicitaria hanno lo stesso obiettivo: persuadere.
Il concetto di marketing emozionale oggi può risultare quasi scontato, ma è in realtà frutto di un’evoluzione e di studi ben precisi sulla psicologia dei consumatori, che hanno portato a spostare progressivamente il focus dalla comunicazione razionale del prodotto e delle sue caratteristiche tecniche alla narrazione del mondo costruito intorno alla marca, un mondo fatto di valori, immaginari e richiami.
Sull’efficacia di questo approccio nessuno può sindacare: le storie funzionano, il driver principale delle scelte, in particolare quelle di acquisto, sono le emozioni. E fin qui tutto bene. Il mondo della pubblicità e del marketing ha legittimamente cavalcato quest’onda, ma la sensazione negli ultimi tempi è che si stia calcando un po’ troppo la mano.
Quando si tratta di storytelling, il confine tra un contenuto brillante e uno pretenzioso è spesso labile. Scadere nello stucchevole può mettere a rischio la percezione del brand, creando una dissonanza tra il prodotto e la sua narrazione.
La comunicazione emozionale non è un passepartout, e se può funzionare per un supermercato, forse volerla a tutti i costi applicare ai capannoni industriali in pvc potrebbe risultare un po’ una forzatura.
Il mondo della marketing, come peraltro quello della finanza, della politica e dell’informazione, sembra caduto vittima di quello che il filosofo coreano Byung Chul Han definisce “capitalismo delle emozioni”. È importante invece, per il brand e per chi si occupa di comunicarlo, rimanere fedele alla propria identità, caratteristiche e proposta di valore. Ancora di più è fondamentale non perdere di vista il target, al quale offrire messaggi sì accattivanti e coinvolgenti, ma soprattutto coerenti con i bisogni che esprime.